Discussione

Il taglio della cagliata. Un gesto mitico per un’arte magica

Il taglio della cagliata. Un gesto mitico per un’arte magica

Durante il mio percorso di studi agroalimentari mi è capitato di venire a contatto con diverse aziende e tra queste alcuni caseifici. In questo articolo racconterò la mia esperienza a contatto con queste piccole aziende costantemente strattonate tra la necessità di una conversione di tipo industriale necessaria per stare su un mercato sempre più concorrenziale e il desiderio di mantenere elevati standard qualitativi e tradizionali. Ho potuto vedere una piccola azienda casearia che è anche un importante istituto di formazione di futuri tecnici caseari e un’azienda media che rifornisce realtà distributive come Esselunga. Malgrado aziende di questo tipo abbiano intrapreso da tempo processi di meccanizzazione e pianificazione industriale, non rinunciano alla qualità dei loro prodotti. Una bella sfida, che spesso (per fortuna non sempre) si traduce in acquisizioni da parte di grandi gruppi. Ho potuto visitare anche aziende agricole di allevamento, quelle da dove parte tutta la filiera del formaggio. Il duro mestiere del casaro. Il latte non dorme mai! questo slogan potrebbe riassumere la vita di chi si dedica al formaggio. Fare il casaro è un mestiere duro, specie nelle piccole aziende. Ti svegli con il latte e vai a letto con esso. In mezzo c’è tutta la lavorazione. Nell’industria casearia, l’approvvigionamento di latte è quotidiano, comincia la mattina prestissimo, tutti i giorni, 365 volte all’anno. Si può considerare una vocazione, perché la caseificazione finisce per abbracciare tutta la tua vita, non esiste vacanza o fine settimana. E’ difficile trovare persone disposte a fare una vita di sacrifici e praticamente invisibile come questa. Quando entri nel vivo della produzione di tipo artigianale però, capisci che ci si può veramente innamorare di questo mestiere nobile, dimenticando anche le pesanti contropartite. Infatti non è tutto rosa e fiori. Il compito della pulizia di uno stabilimento e delle attrezzature preposta alla filiera della produzione del formaggio ad esempio, è quotidiano e pesante. Qualsiasi stabilimento deve garantire criteri igienico-sanitari estremamente rigorosi, per il rischio rappresentato da potenziali contaminazioni di tipo batterico e fungino. Una delle cose che colpisce entrando in uno stabilimento è appunto l’ordine e la pulizia impeccabili. Nulla è ciò che appare. Apparentemente il formaggio sembrerebbe il frutto di una preparazione semplice. Invece è un processo molto complesso, fatto di analisi di laboratorio, innesti, aggiunte, passaggi e controlli della temperatura, tagli e stagionature, tutte attività che cambiano a seconda del tipo di formaggio che si vuole ottenere. Non entrerò nella tecnologia alimentare, ma vorrei illustrare in maniera narrativa alcuni dei processi che più mi hanno colpito durante lo studio. In particolare, il processo che vorrei ricordare, perché conserva ancora qualcosa di magico nella mia memoria, è il taglio e la rottura della cagliata. E’ veramente affascinante guardare il casaro mentre lo effettua con strumenti manuali dalle antichissime origini. Chiaramente si trattava, nel mio caso, di un’esibizione a scopo illustrativo-divulgativo, ma ci sono molte aziende, specie di nicchia, che utilizzano ancora oggi queste antiche metodologie manuali di lavorazione e che hanno solo parzialmente automatizzato alcuni processi, quelli che richiedono una standardizzazione e una conseguente riduzione dei tempi di consegna. In tutti i casi, c’è un concatenamento di processi sincronizzati tra loro. La fine di un processo coincide molto precisamente con l’inizio di quello successivo. Le prime fasi del latte. Si parte dall’arrivo del latte crudo, che dopo un’analisi di laboratorio subisce un primo trattamento di tipo meccanico che consiste nella depurazione fisica. Poi si passa alla fase di Pastorizzazione. Il termine deriva, come si può intuire, dal nome del grande scienziato chimico francese, Louis Pasteur, il primo a scoprire che, attraverso un trattamento termico non distruttivo per un certo lasso di tempo, si può eliminare la carica batterica dannosa di una sostanza liquida (Pasteur lo sperimentò per primo sul vino), senza alterarne la composizione e l’equilibrio organolettico. Il trattamento termico avviene, a seconda della durata (da pochi secondo a più minuti), tra i 65 e i 75 °C. Questa operazione è un’alchimia paradossale per cui, si eliminano i batteri nocivi per reimmetterli sotto forma di fermenti stabilizzati. E’ come quando (banalizzando molto) utilizziamo un antibiotico per eliminare una determinata infezione batterica, facendo al tempo stesso strage anche della nostra flora batterica benefica, che poi ricostituiamo con appositi integratori di fermenti lattici. La pastorizzazione elimina solo una parte dei batteri (a differenza della sterilizzazione), quelli più dannosi per l’alimento e per la salute umana. Alcuni termofili e spore, comunque non dannosi per la nostra salute, sopravvivono a tale processo. Ci sono numerose fasi che precedono la cagliata: Il trasferimento in caldaia, un nuovo riscaldamento a temperature superiori ai 15 °C, l’aggiunta degli Starter microbici attuati con vari metodi (ad esempio il famoso siero innesto fatto utilizzano siero della lavorazione precedente, incubata una notte), l’aggiunta del caglio, un enzima estratto dallo stomaco del vitello. Banalizzando molto, al punto di essere praticamente bocciati, il caglio inverte la normale strutture delle micelle del latte contenente le caseine. Le k caseine sono normalmente idrofile (quindi idratanti) e sono rivolte verso l’esterno, mentre le alfa e le beta caseine sono idrofobe e rivolte verso l’interno. Per questo il latte trattiene l’acqua malgrado le molecole grasse e ci appare come un prodotto molto omogeneo a occhio nudo. Con l’aggiunta del caglio (coagulo enzimatico) avviene un’azione proteolitica sulla caseina K che viene trasformata in paracaseina K, idrofoba. Il contenuto di grasso del latte comincia a respingere l’acqua innescando il processo di coagulazione. Sarebbe molto più complesso, ma ci serve solo per capire perché, ad un certo punto, il latte con l’aggiunta del caglio, comincia a impazzire e a compattarsi, respingendo la sua componente acquosa sotto forma di siero. Da questa piccola descrizione si capisce che la caseificazione è prima di tutto una scienza, molto poetica, ma pur sempre una scienza. Il momento magico della cagliata. Poi c’è, come detto, la coagulazione conseguente all’aggiunta di caglio, la sosta del coagulo, la ROTTURA DELLA CAGLIATA, la sosta della cagliata nel siero e la Cottura della cagliata se richiesta (che significa riscaldare a temperature superiore a quella di coagulazione sotto i 56°C e solo per certi tipi di formaggi). Infine, l’estrazione della cagliata a cui seguiranno i restanti processi di messa in forma, stufatura, salatura e stagionatura per i formaggi o di immissione della cagliata matura in acqua calda a 80/90 °C per i formaggi a pasta filata (mozzarella, scamorza o provolone). Sappiate inoltre, che del latte non si butta via niente. Con il fiore di latte (il grasso che risale e si deposita in superficie ) si puo’ ottenere la panna e da questa il burro per induzione meccanica (abbiamo fatto l’esperimento in classe con della panna pura di latte fresco e un contenitore con all’interno una biglia di acciaio da scuotete fino ad ottenimento del burro, con quel suo bel colore giallastro). Con il siero invece, risultante dal processo di coagulazione che porta alla cagliata, si fa la ricotta (così chiamata perché il siero viene cotto nuovamente). E’ stato incredibile vedere, in classe, l’insegnante di caseificazione mettere il siero a scaldare lentamente per produrre fiocchi di coagulazione che risalivano in superficie e si aggrumavano lentamente a formare la preziosa ricotta. Per questo motivo, non è corretto fare rientrare la ricotta tra i formaggi in senso proprio. E’ un alimento dallo straordinario valore nutritivo e molto meno grasso della maggior parte dei formaggi. Occorre diffidare invece delle molte ricotte industriali, spalmabili e dal gusto di crema di latte perché la vera ricotta si presenta in forma di fiocchi fusi, visibili a occhio nudo. Deve avere quella impronta organolettica che la distingua decisamente dal formaggio in termini di acidità e sapore. Anche il siero di “scarto” viene raramente sprecato, perché destinato spesso agli allevamenti animali (maiali ad esempio) per il suo alto valore nutrizionale e l’abbondante disponibilità a basso prezzo. Quando viene aggiunto il caglio e la cagliata è completa (si presenta come un ammasso compatto, omogeneo e gelatinoso), il casaro ne verifica la correttezza, sollevandone un lembo, come fosse una gigantesca forma di budino. Questa operazione ha sicuramente un valore rituale, nell’ambito dei caseifici che compiono le operazioni di caseificazione manualmente. Il taglio della cagliata, un gesto antico dal sapore mitico Poi arriva il momento magico: è un po’ come il taglio del nastro nell’inaugurazione di una nave. Con un coltello per cagliata (che possono essere lunghi anche 40cm) il casaro effettua il primo taglio. Fa una specie di croce (tipo cardo e decumano delle città romane). Poi si procede con strumenti come la lira (chiamata così perché somiglia allo strumento musicale) automatizzata o manuale. C’è anche lo spino, per ottenere cubi di caglio delle più svariate dimensioni che consentiranno di ottenere noci (i grani di caglio) di diverse dimensioni (da noci grandi e piccole fino alle lenticchie) a seconda del tipo di formaggio che si andrà a produrre. C’è anche la spannarola, che fa venire in mente i piatti di una batteria musicale. Sarà una coincidenza questo continuo parallelismo tra musica e formaggio? probabilmente no. Insomma da quel gesto mitico, fatto con l’uso iniziale di un coltello (di cui il mastro casaro è molto geloso) nasce tutto un mondo fatto di una miriadi di operazioni e cure, come in una gigantesca e magica incubatrice. Un mestiere affascinante dunque, pieno di tecniche e di competenze scientifiche. Molti giovani dovrebbero prenderlo seriamente in considerazione, come valida alternativa ai tanti lavori che offrono pochi margini di crescita e soddisfazione a medio e lungo termine. I casari sono molto ricercati, e non dobbiamo stupircene, vivendo in un paese che ha fatto della varietà e la qualità dei suoi prodotti lattiero caseari, il fiore all’occhiello del made in Italy agroalimentare riconosciuto nel mondo intero. Eppure ci si ostina a proporre ai giovani lavori c.d. di successo, spesso effimeri, che si evolvono o scompaiono con i cambiamenti rapidi della società. L’arte casearia invece, come altre naturalmente, non passa mai. Una volta acquisite le competenze tecniche è difficile che siano rese inservibili, malgrado gli ammodernamenti e l’automatizzazione. Piccolo excursus sull’industria lattiero casearia oggi Quando entrai per la prima volta a visitare il caseificio, mi si aprì un mondo che fino ad allora, come molti, avevo visto solo nella fase finale della filiera: la distribuzione sugli scaffali del commercio. Il perfezionamento del prodotto finale, specie se di qualità superiore, sembra ancora avvolto da quell’aurea di antica lavorazione artigianale. Le aziende di grandi formaggi DOP italiani, celebri in tutto il mondo, hanno contribuito a creare la leggenda casearia, dove il latte passa magicamente dai campi alle abili mani dell’artigiano casaro che cura ogni singola forma come fosse frutto di un parto speciale. Certo, in alcuni casi corrisponde grossomodo alla realtà, ma si tratta nella maggior parte dei casi di pura fantasia. Anche quest’industria è proiettata nella modernità, con tutte le incognite e i compromessi. In Valpelline, ad esempio, la materia prima e il semi lavorato (il formaggio grezzo) nascono effettivamente nelle malghe e il prodotto finale (la fontina) viene ancora stagionato e invecchiato all’interno di antiche miniere di rame. E così potremmo dire per alcuni consorzi di formaggio DOP, come la Scamorza, il Caciocavallo, il Gorgonzola, Provolone, solo per citarne alcuni. Sono però prodotti di nicchia, in cui il disciplinare di prodotto è proprio dato dal metodo di lavorazione rigoroso e non industriale, cosa che può giustificare anche i costi di produzione e il relativo alto prezzo del prodotto al consumo. Questi prodotti non sono la regola del mercato caseario. In un caseificio moderno, come quello che ho visitato (e non parlo delle multinazionali del latte e dei formaggi che hanno invaso i nostri scaffali) il rispetto di certi criteri di selezione, di controllo e di lavorazione di tipo tradizionale, si sposa con la necessità di velocizzare alcuni processi (automatizzazione e digitalizzazione) per consentire di giungere al prodotto finale e alla distribuzione senza rallentamenti o disservizi. Vengono applicate tutte le moderne tecniche e tecnologie di pianificazione produttiva, utilizzate con successo in altri settori dell’industria. Non dobbiamo dimenticare che per molte piccole aziende lattiero casearie, con prodotti qualitativamente rispettabili, la distribuzione la fa da padrone. Quest’ultima impone, spesso, processi di standardizzazione stringenti che garantiscano un confezionamento adeguato, un approvvigionamento impeccabile e nei tempi richiesti, ad un prezzo imposto ed una qualità standard. Tutta la filiera è ormai spostata verso la distribuzione che raccoglie, in alcuni casi, fino al 70% dei margini. Ai piccoli produttori con scarso potere contrattuale resta ben poco sul prezzo finale del prodotto e in termini di autonomia produttiva. Alcune famose multinazionali che hanno acquisito marchi caseari nostrani tradizionali, sono anche delle gigantesche holding del marketing e del confezionamento industriale, nonché degli immensi terminali della distribuzione. Possiamo capire quanto poco rischia di restare di tradizionale nella gran parte del formaggio che consumiamo ogni giorno. Tradizione e marketing sono ormai le due facce della stessa medaglia. Il formaggio sta rischiando di perdere gran parte del suo gusto poetico oltre che quello organolettico! Il gruppo francese Lactalis ad esempio, ha acquisito nel 2008 i nostri marchi storici come Galbani, Invernizzi, Locatelli e Cademartori. Possiamo aspettarci dai loro prodotti, per la standardizzazione tipica di chi produce in economia di scala, bassi rischi di contaminazione biologica, basso prezzo e disponibilità costante, ma non aspettiamoci, come le pubblicità vorrebbero farci credere, ingenuamente genuinità. Io parlo nell’articolo, delle tante medie aziende casearie che, pur non trovandosi né nella categoria delle grandi multinazionali, né in quella dei consorzi DOP, producono formaggi secondo criteri di tipo tradizionale. Si trovano strette tra le necessità di convertire industrialmente alcuni processi di produzione e quella di mantenere il più possibile la qualità del prodotto originale. Vivo nella Cheese Valley, dove tra la Lombardia e l’Emilia Romagna si producono prodotti come il Grana Padano o il Parmigiano Reggiano DOP. Qui Il formaggio è una vera e propria istituzione. A proposito sapevate che la differenza tra i due (Grana Padano e Parmigiano) è di tipo squisitamente produttivo. Le vacche che producono latte per il Parmigiano Raggiano si alimentano esclusivamente a fieno ed erbe fresche coltivate e raccolte localmente (in una area ristretta tra le provincie di Parma e Reggio Emilia), mentre per il Grana Padano (prodotto tra Lombardia, Trentino , Veneto e Piemonte) come alimentazione, vengono utilizzati insilati fatti di piante intere (ad esempio di mais trinciato) immesse in sili (per questo si parla di insilati) verticali, dove subiscono compressione ed isolamento dall’aria oppure in trincee coperte di plastica. Vi sarà capitato di vedere le montagnette coperte di plastica sulle quali, a volte, vengono (o venivano perché non so se sia ancora consentito) posizionati copertoni per impedire passaggio di aria. La sotto, ci sono sicuramente insilati destinati a nutrire le vacche. Un cultore del Grana Padano si rende conto che sta uscendo “dall’area del Grana” quando vede scomparire i sili e le trincee dalle campagne! Comunque, dato il potenziale di contaminazione batterica di contatto con il terreno (ad esempio il Clostridium tyrobutirricum) e dei complessi processi di fermentazione aerobica e anaerobica che avvengono con l’insilamento viene impiegato, in fase di caseificazione del Grana Padano, assieme al caglio e al sale, anche il lisozima. E’ una proteina estratta anche dall’albume d’uovo, che ha lo scopo di mantenere sotto controllo lo sviluppo di questi batteri. Ho toccato solo alcuni aspetti della questione e magari, in alcuni casi, ho commesso delle imprecisioni. Il mio scopo è stato, e spero di esserci almeno in parte riuscito, di introdurvi nell’affascinante mondo della produzione casearia che conserva ancora, malgrado tutto quello che abbiamo detto, un grande fascino, specie nelle fasi che ho illustrato all’inzio, in cui il latte si trasforma in uno degli alimenti più antichi e straordinari della civiltà umana: il formaggio.