(Una narrazione interessante che si può riassumere con la frase “Making rings is kind of boom or bust in med chem. You either win big or you lose big” - Dafydd Owen, Pfizer’s senior scientific director, medicinal chemistry)
Premetto che questo lungo post, vuole rappresentare, per chi ne fosse interessato, una “sbirciatina”, con un occhio più propenso alla narrativa giornalistica che alla pura conoscenza tecnica dell’argomento, su un mondo di cui in tanti parlano, scrivono, discutono, ma spesso senza avere la benché minima idea di cosa si celi, molto spesso, dietro la scoperta o sviluppo di un farmaco.
Sono stato sempre incuriosito dal lavoro svolto che portò a questa formulazione ormai assunta agli onori anche della cronaca, e contestualmente mi sono spesso interrogato, leggendo le più disparate pubblicazioni al riguardo, su come quel progetto fosse stato seguito, volgendo spesso l’occhio sulle risorse impiegate, i tempi di realizzazione ed i rischi connessi ad una tale operazione. Questa vicenda, tutto sommato dai contorni intriganti, da leggersi quasi fosse un racconto, iniziò il venerdì 13 marzo del 2020, quando il chimico Dafydd Owen, impegnato nella progettazione e sviluppo di farmaci alle dipendenze della R&D ( Ricerca e Sviluppo ) di Pfizer a Cambridge, nel Massachusetts, anziché rimanere come al solito nel proprio ufficio, fu rimandato a casa. In una intervista dichiarò in seguito: “Siamo stati tutti rimandati a casa quel venerdì perché, a quel tempo, il mondo era completamente diverso”. Ritornando a casa, Owen, sapeva comunque bene che quella decisione non era stata certamente presa per far si che lui si potesse spaparanzare tranquillamente sul proprio divano per abbuffarsi di Netflix e popcorn. Ehh no!
Come molti colossi farmaceutici, in quel periodo, anche la Pfizer stava mettendo in stand-by la maggior parte dei progetti pregressi per poter far fronte all'emergenza nazionale causata dalla COVID-19 ed infatti, quel venerdì, il CEO di Pfizer rese noto ai propri collaboratori più stretti, un piano in cinque punti che riassumeva in sostanza, quale dovesse essere la risposta dell’Azienda alla Covid-19. Tradotto, i capi di Owen, perseguendo una prassi insolita, gli chiesero di trascorrere il fine settimana pensando a quali risorse avrebbe avuto di bisogno per avviare un programma capace di sviluppare un farmaco orale per combattere la pandemia emergente. Preciso, ad onor del vero, che Owen era anche a conoscenza del fatto, tutt’altro che trascurabile, che in termini di risorse, lui e quello che sarebbe diventato il suo team, avrebbero potuto far conto sul 50% di risorse in più, rispetto a quelle normalmente riservate a qualunque altro programma di ricerca, anche se ovviamente il tempo a disposizione sarebbe stato molto più breve. So…what was the problem? Owen, oltre a non essere mai stato un capo progetto, non aveva mai lavorato ad un antivirale.
Lungi dal preoccuparsi, accettò ugualmente la sfida, contando anche sull’ipotesi, tutt’altro che peregrina, che Il suo “status” di capo progetto alle prime armi avrebbe potuto conferirgli un vantaggio anzichenò.
Che si avvertisse un impellente senso d’urgenza era fin troppo chiaro ma Owen, non avendo mai guidato prima un progetto di ricerca e nello specifico su quella particolare classe di farmaci, non si sentiva vincolato da nessun preconcetto o condizionamento su come un tale programma dovesse essere gestito. Durante quel fine settimana, Owen rispolverò tutte le sue conoscenze di chimica farmaceutica incentrate sugli antivirali ed in questo fu, tutto sommato agevolato, dal momento che non dovette procedere alla cieca per individuare uno specifico target. Ciò si rese possibile perché già da tempo gli scienziati di Pfizer avevano individuato come obiettivo quello di sviluppare un antivirale capace di inibire la proteasi principale (nota anche come proteasi 3CL) del SARS-CoV-2 e questo poiché in un recente passato, inibire la proteasi virale, per dirla semplice, l’origine dell’intero arsenale molecolare del virus, si era rivelata una strategia di successo nello sviluppo di farmaci per contrastare l'HIV e l'epatite C.
Ed Owen ben sperava che, sebbene non si potessero confrontare quei virus con il SARS-CoV-2, la strategia in quella direzione appariva estremamente solida e promettente.
Last but not least, la Pfizer aveva anche un asso nella manica: nel 2003, i ricercatori dell'azienda svilupparono un antivirale, noto come PF-00835231; questo antivirale era in grado di bloccare la principale proteasi di un coronavirus emerso nel 2002 e causa della sindrome respiratoria acuta grave nota ai più come SARS, ma proprio poco prima di iniziare le fasi di test sui pazienti, l’epidemia venne contenuta e PF-00835231 non vide mai la luce.
In quel lunghissimo weekend, Dafydd Owen, fece il punto su quanto realmente si conosceva del funzionamento di PF-00835231. La struttura era simile a quella di un peptide ( una molecola di sintesi formata dal legame lineare di 2 o più aminoacidi ), in grado di legarsi all’interno della proteasi principale del virus responsabile della SARS e poiché questo sito di legame era identico, tanto per la SARS quanto per il SARS-CoV-2, i ricercatori Pfizer ragionarono sempre sull’idea che PF-00835231 potesse funzionare anche contro il nuovo virus ed i test condotti, effettivamente, dimostrarono che avevano ragione. Ma c’era un ma, il solito “maledetto” MA. Essendo simile ad un peptide, PF-00835231 era particolarmente ricco di donatori di legami idrogeno ( ben 5 ) e per farla semplice, questa peculiarità, “intrappolava” la molecola a livello intestinale, se assunta oralmente, condizionandone quindi la somministrazione solo per via endovenosa e quindi in ambiente ospedaliero.
Esattamente l’opposto di quanto era stato richiesto al nostro “protagonista”.
Fu questa quindi, la vera sfida su cui Owen, ragionò in quei giorni, partendo dall’assunto, come ebbe a dichiarare in seguito egli stesso, che “si trattasse di un problema di chimica farmaceutica”, ossia arrivare ad una molecola antivirale che potesse essere assunta oralmente ai primi sintomi di malattia.
La narrazione ci racconta poi che dopo un fine settimana trascorso a studiare ed ad individuare le strategie più adatte da adottare, lunedì 16 marzo 2020, Owen ed i suoi colleghi riuscirono ad elaborare un programma consono alle aspettative. Ciò che arricchisce questa vicenda anche dal punto di vista “umano” fu il fatto che Owen, a differenza dei suoi colleghi e collaboratori, non rientrò nel proprio ufficio a Cambridge, cosa che fece solo alla fine dell’ Aprile 2021. Egli infatti preferì trascorrere i successivi tredici mesi, lavorando in un improvvisato ufficio/laboratorio allestito presso la propria abitazione. Decisione che gli permise di godersi in santa pace la natura che lo circondava e contemporaneamente di seguire il percorso scolastico dei figli in DAD.
E qui, la storia si arricchisce di qualche contenuto tecnico in più. Il programma che venne elaborato in quel famosissimo weekend comprendeva, come base di partenza, l’eliminazione di alcuni donatori di legame idrogeno, dal momento che rappresentavano l’elemento portante del problema, per cui ciascuno di quelli presenti in PF-00835231 vennero presi in esame e studiati dettagliatamente. Il ragionamento che guidò Owen in questa fase fu che se un determinato legame idrogeno fosse fondamentale per far legare il composto alla proteasi, doveva rimanere nella molecola, mentre si sarebbe dovuto procedere all’esclusione di quei legami idrogeno che, anche se eliminati, non avrebbero compromesso l’attività antivirale.
Il primo donatore di legami idrogeno che il team, oramai guidato a tutti gli effetti da Owen, rimosse da PF-00835231 fu l'α-idrossimetilchetone.
Owen e la sua squadra, pensarono che avrebbero potuto sostituirlo, potendo scegliere tra il benzotiazol-2-yl chetone ed il nitrile, e dopo accurate valutazioni, pur essendo molecole entrambe promettenti, la scelta cadde su quest’ultimo.
Perché?… Come spiegò Owen in seguito, innanzitutto perché il nitrile si dimostrò più solubile del benzotiazol-2-yl chetone e più una molecola è solubile, più facile risulta produrre soluzioni della molecola richiesta in alte concentrazioni per gli studi di tossicologia pre-clinica. Secondariamente, ma non meno importante, la procedura per produrre su larga scala quel nitrile si rivelò molto più semplice rispetto a quella per il benzotiazol-2-yl chetone e questo fatto, se all’interno di un laboratorio, per fini di studio, non fa una grande differenza, diventa invece discriminante nel momento in cui si pensa di iniziare un processo di produzione. Per cui, quando pensate ad un processo di sviluppo e produzione di un farmaco, non pensate che sia come andare a far la spesa al supermercato, solo con il portafoglio gonfio di sodi.
Un secondo donatore di legami idrogeno che il team si rese conto di poter escludere, venne rinvenuto in una determinata porzione dell’aminoacido leucina presente in PF-00835231. Per questo motivo, quella determinata porzione, fu sostituita con un aminoacido ciclico (la prolina è l’unico amminoacido ciclico, non ha caratteristiche polari e non presenta alfa idrogeni pertanto non può formare legami a idrogeno).
In questo contesto assume dunque un significato estremamente chiaro, la frase riportata ed attribuita allo stesso Owen :“Making rings is kind of boom or bust in med chem. You either win big or you lose big”, dal momento che quando si va ad agire su una molecola ciclica, si sta “provando”, passatemi il termine non corretto, una nuova conformazione molecolare per cui è indispensabile che la conformazione sia quella giusta, altrimenti il rischio è quello di ritrovarsi tra le mani una molecola inattiva.
Un aspetto importante da sottolineare è che quando Owen ed i suoi collaboratori introdussero quell’elemento ciclico nella molecola PF-00835231, se da un lato osservarono un modesto calo di potenza farmacologica, dall’altro, constatarono che tale calo non era sufficiente per ridurre in modo significativo l'attività del composto e quindi, quella componente ciclica, divenne a tutti gli effetti una caratteristica fondamentale da cui non poter prescindere.
Come spesso accade in questi casi, però, quella rimozione comportò un costo, in termini chimici ovviamente, e l’intero team, dovendo cercare di ripristinare un’interazione persa con un particolare aminoacido (glicina) si concentrò su 3 molecole, per individuare quella più adatta da inserire ed indicata allo scopo: methanesulfonamide, acetamide e trifluoroacetamide. Queste tre molecole, all’apparenza simili, si pensava fossero in grado di comportarsi tutte allo stesso modo, ma alla prova dei fatti non si rivelò affatto così e, nei test che seguirono, solo la trifluoroacetamide manifestò una buona capacità di permeare la barriera intestinale.
Questo aspetto risultò determinante, come si può evincere dalle dichiarazioni espresse da Jeremy Green, chimico e consulente per lo sviluppo di farmaci antivirali, che pur in virtù di una notevole esperienza sul campo, non fu coinvolto direttamente nel progetto, il quale non ebbe alcuna esitazione nel dichiarare: “ Quella della trifluoroacetamide, per la maggior parte dei ricercatori, non sarebbe stata certamente la prima scelta, ma i risultati ottenuti nei test, indicarono chiaramente che fosse in grado di conferire davvero quella permeabilità che si stava cercando di ottenere”.
Ed andò esattamente così, tanto che lo stesso Owen, confortato dai risultati ottenuti, rilasciò una dichiarazione in cui testualmente affermò: “Quando fummo convinti che l’effetto della trifluoroacetamide era così importante, riuscimmo nell’intento di integrarla all’interno di tutti quei cambiamenti chimici che avevamo operato sino al allora, al fine di poter poi garantire quella biodisponibilità orale che era alla base della somministrazione dell’antivirale”. E con ciò, fine della trattazione di contenuti troppo tecnici.
Fu così che, Il 22 luglio del 2020, vide la sua prima luce la molecola PF-07321332, quella che solo più tardi sarebbe stata conosciuta con il nome
di Nirmatrelvir. Da notare, nell’ambito della narrazione di questa vicenda che, come dichiarò lo stesso Owen: “Quel composto rientrava semplicemente nel novero degli altri 20 che erano stati prodotti in quella sola settimana, e nulla di più. A tutti gli effetti, non sapevamo ancora di cosa effettivamente avevamo per le mani”.
Quello di cui si era consapevoli si traduceva soltanto nel fatto che quella molecola comprendeva tutte le modifiche strategicamente escogitate e successivamente messe in atto dall’intero team per poter rendere il composto un efficace antivirale in grado di essere assunto sotto forma di una semplice pillola. Pertanto, fu solo quando vennero resi noti i relativi risultati dello studio di farmacocinetica sui ratti, che confermavano sia la buona attività antivirale sia la proprietà relativa alla somministrazione per via orale, che i ricercatori di Pfizer guidati da Owen, ebbero la conferma di aver intrapreso con PF-07321332 la strada giusta, seppur ancora lunga da completare, e ciò avvenne solo una mattina del 1 settembre 2020.
La narrazione racconta come la produzione di PF-7321332 sia iniziata alla fine del mese di Giugno 2020 con la sintesi di 7 mg del composto da parte di un team di circa 210 ricercatori. Questi pochi milligrammi divennero 100 g a fine Ottobre e due settimane più tardi, grazie all’incoraggiamento di quei dati aspettati quanto attesi di farmacocinetica, l’intero team di Pfizer, riuscì nell’intento, entro la fine di Novembre di quell’anno, di aumentarne la sintesi, producendo sino a 1,4 kg del composto da utilizzarsi per i successivi studi tossicologici.
( Rifletta su questi pochi numeri: 210 ricercatori per poco più di un Kg di prodotto nell’arco di poco meno di 5 mesi, chi sbandiera a destra e a manca, senza sapere nulla al riguardo dell’argomento che la ricerca farmaceutica sia solo un’oasi felice nell’immaginario collettivo in cui i problemi sono unicamente legati ai brevetti e che in pochi mesi si possano ottenere quintalate di “prodotto” finito da vendersi al migliore offerente punto e basta ). Più esattamente, la campagna di sintesi continuò incessantemente ( a Marzo del 2021, si poteva parlare di chilogrammi, prodotti secondo tutti i requisiti normativi richiesti ) per avviare, sulla scorta di quei dati molto promettenti ma anche ottenuti rapidamente, ben due studi tossicologici e l’avvio di uno studio di fase 1 sull'uomo.
Come ebbe più volte da dichiarare lo stesso Owen, condurre più attività, compresa la produzione, in parallelo piuttosto che in una ben determinata sequenza temporale, rappresentava certamente un rischio finanziario, ma calcolato all’origine. Di certo, non rappresentava la norma, dal momento che se le cose non avessero funzionato, tutti gli sforzi prodotti si sarebbero dissolti nel nulla. Ma quello era il momento di esibire la massima efficienza possibile unitamente ad un “briciolo” di coraggio.
Ovviamente, come già scritto prima, l’impatto con la “vita reale” non è mai sempre e solo rose e fiori per cui i processi di sintesi di un composto che conducono ad una produzione all’interno delle quattro mura di un laboratorio sono una cosa, mentre quelli necessari a realizzare una produzione industriale su vasta scala, rappresentano tutt’altra storia.
Ed arriviamo così verso la fine di questa narrazione. L’intero gruppo di studio, che iniziò il proprio lavoro in quell’ormai lontano quanto cruciale weekend, per poter presentare al mondo il proprio antivirale orale, a cui diede il nome di Paxlovid, combinò ulteriormente il composto PF-07321332 con un antivirale già utilizzato nel trattamento dell’HIV, il Ritonavir. L’aspetto interessante, e certamente meno conosciuto, è rappresentato dal fatto che Owen afferma che questo approccio era quello che i ricercatori pensavano di dover adottare fin dall'inizio del progetto. Ritonavir non ha alcuna attività contro il SARS-CoV-2 ma è in grado di impedire che il composto PF-07321332 si degradi prima che abbia svolto il proprio compito di inibire la proteasi principale del virus.
Concludo, rispondendo a chi ancora si domanda cosa rappresenti, oggi, in termini pratici, Paxlovid. L’ex PF-07321332, rappresenta dunque il primo trattamento antivirale orale per la COVID-19 che può essere assunto a casa. Si tratta di una associazione farmacologica, Nirmatrelvir/Ritonavir, (300mg/100 mg due volte al dì per 5 giorni) in cui il Nirmatrelvir agisce come un inibitore della proteasi SARS-CoV2-3CL e quindi attivo sulla replicazione virale, mentre il Ritonavir (farmaco già ampiamente utilizzato per il trattamento dell’infezione da HIV) rallenta, a basse dosi, la degradazione del Nirmatrelvir stesso. Questa terapia, in grado di ridurre il rischio di ricovero in ospedale causa COVID-19 di circa il 90%, deve essere avviata il prima possibile e comunque non oltre i 5 giorni dall’esordio dei sintomi.
L’FDA americana ha emesso un provvedimento di autorizzazione all'uso di emergenza (EUA) di Paxlovid per il trattamento della malattia da SARS-CoV-2 di grado lieve o moderata negli adulti e nei pazienti pediatrici (> 12 anni di età e di > 40 Kg di peso corporeo) che abbiano un test diretto positivo per SARS-CoV-2 e che presentino fattori di rischio per progressione a COVID-19 grave. Paxlovid è attualmente autorizzato per uso condizionale o di emergenza (EUA) in diversi paesi in tutto il mondo ed in Europa, mentre l'Agenzia Europea per i Medicinali (EMA), ne ha raccomandato oggi l'autorizzazione all'immissione in commercio condizionata per le stesse indicazioni autorizzate da FDA. ( https://www.ilsole24ore.com/radiocor/nRC_27.01.2022_15.22_46710467). Questi sono i link in cui si è scritto di Paxlovid e relativi nullaosta, per chi volesse, “rinfrescarsi la memoria”.
https://www.facebook.com/paolo.bonilauri.1/posts/10226560637032563
https://www.facebook.com/pillolediottimismo/posts/450911119982698
https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/12/le-indicazioni-di-ema-per-lutilizzo.html
https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/11/pfizer-avvia-lo-studio-di-fase-iiiii.html
https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/11/molnupiravir-lagevrio-di-merck-e.html
https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/12/via-libera-temporanea-agli-antivirali.html
https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/12/tra-usa-ed-italia-regali-di-natale.html
NOTA BENE: PAXLOVID NON RAPPRESENTA UN’ALTERNATIVA AL VACCINO.
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